Il giudice non può supplire alla politica
È online la relazione del Tribunale ordinario di Roma, Collegio per i reati ministeriali, con la quale si chiede al Parlamento italiano l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro della giustizia, del Ministro degli interni e del Sottosegretario alla presidenza del Consiglio sulla vicenda Almasri.
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Alle pagg. 87, 88 e 89 il Tribunale di Roma ha affrontato il tema se gli atti compiuti e/o omessi di cui si discute siano riconducibili alla nozione di atto politico per così dire “puro”, e come tale sottratto al sindacato giurisdizionale o se siano, invece, atti sia pure di alta amministrazione ma giustiziabili.
Per rispondere a questa domanda il Collegio si è riportato, fedelmente, ai principi, ormai consolidati, di cui alle sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 27177 del 22.09.2023 ribadite recentemente dalle Sezioni Unite della Cassazione con l’ordinanza 06.03.2025, n. 5992 per le
quali:
“L’art. 7, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. amm. – riprendendo una previsione già contenuta nellart. 31 del Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato (approvato con il regio decreto n. 1054 del 1924), e, prima ancora, nell’art. 3, comma 2, della legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (legge n. 5992 del 1889) – esclude dall’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo gli atti ed i provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico. Per qualificare un atto come politico, la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2022, n. 4636) richiede due requisiti:
– sotto il profilo soggettivo, l’atto deve provenire da un organo preposto all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello;
– sotto il profilo oggettivo, l’atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, deve concernere, cioè, la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione. È ritenuto tale non l’atto amministrativo che sia stato emanato sulla base di valutazioni specificamente di ordine politico, ma solo l’atto che sia esercizio di un potere politico. La nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità. Il principio di giustiziabilità degli atti del pubblico potere, di soggezione del potere alla legge ogni qualvolta esso entra in rapporto con i cittadini, costituisce un profilo basilare della Costituzione italiana.
Il diritto vivente conferma la recessività della nozione di atto politico, che coincide con gli atti che attengono alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. L’esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi (Cass. Sez. U. 02/05/2019, n. 11588, cit.). Non è, quindi, soggetto a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l’ntervento del giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri
(Cons. Stato, Sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502). Ai fini della giustiziabilità dell’atto, accanto ai caratteri del provvedimento, occorre guardare alla dimensione sostanziale della legalità, la quale richiede che l’atto di esercizio del potere sia suscettibile di essere confrontato con le norme che lo disciplinano. Va inoltre
valutata la presenza di interessi giuridicamente rilevanti: se mancano situazioni qualificate differenziate o si è in presenza di interessi di mero fatto, allora è possibile parlare di atto non sindacabile proprio perché non tocca direttamente situazioni giuridiche. La chiave di volta ai fini del giudizio di insindacabilità di un atto del potere pubblico è costituita, in generale, dalla mancanza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione. Viene in rilievo, infatti, l’art. 101, secondo comma, Cost., il quale, nel fissare il principio della soggezione dei giudici soltanto alla legge, individua nella legge il fondamento e la misura del sindacato ad opera del giudice. Ciò significa che, in assenza di un parametro giuridico alla politica, il sindacato deve arrestarsi: per statuto costituzionale, il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza. Lo preclude il principio ordinamentale della separazione tra i poteri. La zona franca è il riflesso della presenza di una politicità dell’atto che non si presta ad una rilettura giuridica.
L’insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall’ordinamento a vincoli di natura giuridica. Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso. Il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità, e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l’esercizio dell’azione di governo. La giustiziabilità dell’atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere. Se dunque esiste una norma che disciplina il potere, che
ne stabilisce limiti o regole di esercizio, per quella parte l’atto è suscettibile di sindacato. È questo un approccio coerente con gli approdi della giurisprudenza costituzionale. Con la sentenza n. 81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto.
Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate.
E tra tali vincoli rilievo primario ha certamente il rispetto e la salvaguardia dei diritti inviolabili della persona. L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati.
Questa prospettiva metodologica informa gli svolgimenti della giurisprudenza, del Consiglio di Stato e di questa Corte regolatrice. Il giudice amministrativo è giunto alla conclusione che l’insindacabilità in sede giurisdizionale dell’atto va esclusa in presenza di una norma che predetermina le modalità di esercizio della discrezionalità politica o che comunque la circoscriva: è impugnabile l’atto, pur promanante dall’autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica, la cui fonte normativa riconosce l’esistenza di una situazione giuridica attiva protetta dall’ordinamento riferita ad un bene della vita oggetto della funzione svolta l’amministrazione (Cons. Stato, Sez. I, 19 settembre 2019, n. 2483).”
In buona sostanza principio cardine di uno stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche dove la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato – pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale – non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile solo alla responsabilità penale.
A me pare che il Tribunale di Roma abbia fatto corretta applicazione di tali principi e quindi non possa essere accusato di fare politica.
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