Anno: XXVI - Numero 155    
Giovedì 7 Agosto 2025 ore 13:50
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Il volto repressivo del Decreto Sicurezza

Il decreto sicurezza di Meloni: l’ultimo (e più evidente) frutto della torsione securitaria e panpenalista delle liberal-democrazie occidentali.

Il volto repressivo del Decreto Sicurezza

Negli ultimi mesi si sono sollevate moltissime proteste e moltissime voci critiche rispetto ad uno dei provvedimenti più controversi adottati dal governo presieduto da Giorgia Meloni: il c.d. decreto sicurezza, cioè il d.l. 11 aprile 2025, n. 48, contenente “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, definitivamente convertito in legge 9 giugno 2025, n. 80[1].

Un provvedimento preoccupante da diversi punti di vista, soprattutto perché rappresenta bene due tendenze di fondo, diverse ma complementari, che da anni emergono nel nostro ordinamento: l’approccio securitario, cioè la tendenza a rispondere ai crescenti (e comprensibili) bisogni di protezione delle persone con maggiore sicurezza pubblica, intesa solo come ordine pubblico; il crescente panpenalismo delle classi politiche, cioè il tentativo di rispondere a questioni o problemi collettivi, spesso di natura culturale o sociale, a colpi di diritto penale.

Andando con ordine e tralasciando le questioni di metodo – come la scelta di rispolverare l’interscambiabilità, in corso di approvazione, dei procedimenti legislativi ad iniziativa governativa[2] e di introdurre così tanti nuovi reati con lo strumento del decreto legge – su cui si sono già espressi molti costituzionalisti e penalisti, le questioni problematiche più preoccupanti emergono se si legge il testo della norma e il contesto culturale da cui emerge.

Il governo di Giorgia Meloni rappresenta bene e in modo più spiccato l’incontinenza securitaria delle democrazie liberal-democratiche. Da quando è entrato in carica, il tema dell’ordine pubblico è stato da subito al centro dell’attenzione di questo governo. Basti pensare al c.d. decreto rave[3], con il quale ha introdotto l’art. 633 bis del c.p. con cui si punisce l’invasione di terreni o di edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica. Oppure al c.d. decreto Caivano[4], il decreto che ha affrontato il disagio giovanile, la povertà educativa e la criminalità minorile, con l’inasprimento di alcuni reati sulla detenzione di armi abusive, sulla produzione/traffico/detenzione di droghe e, soprattutto, con il reato di «inosservanza dell’obbligo dell’istruzione dei minori» e con il DASPO urbano per i minorenni. Ci torneremo. Insomma un decreto sulla sicurezza all’anno.

L’ultimo decreto, però, è senza dubbio quello che più incarna questo approccio securitario, introducendo 14 nuovi reati, varie aggravanti e aumentando le pene per altri 9 reati. In modo particolare – senza potere entrare troppo nel merito, l’approccio securitario emerge perfettamente non tanto dalle singole disposizioni, ma dallo schema complessivo del decreto: mentre si introducono nuovi reati e aggravanti, tra cui alcuni che mirano chiaramente a punire alcune forme tradizionali di espressione del dissenso, si rafforzano le tutele per le forze dell’ordine e si allargano le maglie del loro potere di intervento.

Basti pensare, solo per fare qualche esempio, all’introduzione di un’aggravante generica per chi commette una serie di reati (come quelli riguardanti l’incolumità pubblica, l’incolumità delle persone oppure del patrimonio, quindi a naso un terzo del codice penale) «all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri»; oppure all’aggravante per chi in occasione di manifestazioni procura danni «con violenza alla persona o con minaccia». O, in modo ancora più evidente, all’introduzione del reato di blocco stradale o ferroviario, che punisce «chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata, ostruendo la stessa con il proprio corpo, […] con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro». Inoltre, «la pena è della reclusione da sei mesi a due anni se il fatto è commesso da più persone riunite».

Nonostante le parole del ministro Piantedosi, che prima dell’approvazione rassicurò tutti sul fatto che questa disposizione fosse stata pensata solo per mettere i manifestanti in stato di fermo (ma chi ci dice che l’indirizzo non cambi?!?), la decisione di dare una rilevanza penale al blocco stradale o ferroviario (al posto della sola sanzione amministrativa), in particolare se fatto da più persone, ha lo scopo evidente di rendere maggiormente gravoso l’utilizzo di una delle più classiche manifestazioni di dissenso, usate da sempre in occasioni di scioperi e di manifestazioni di protesta, in particolare negli ultimi anni. I blocchi stradali, come forma di pressione politica sui governi (anche attraverso i disagi alla circolazione, che comprensibilmente urtano chi li subisce) non sono stati utilizzati solo dagli attivisti climatici, ma anche dagli agricoltori di tutta Europa in protesta per le politiche di Bruxelles, dagli operai dell’ex Gkn in lotta per il diritto al lavoro e per la gestione collettiva della fabbrica, dai gilets jaunes in Francia contro le politiche di Macron, dai movimenti no-TAV proprio in questi giorni. Nonostante le giustificazioni del ministro, dovremmo dirlo senza remore: questa è una delle scelte più antidemocratiche contenute in questo decreto.

Se, da un lato, si inaspriscono le pene e si introducono nuovi reati, dall’altro lato, si innalzano le tutele per le forze dell’ordine o si aumentano i loro poteri. Riportando solo le disposizioni più problematiche, sono state introdotte nuove aggravanti ai reati di «violenza o minaccia a pubblico ufficiale» (art. 336 c.p.) e di «resistenza a pubblico ufficiale» (art. 337 c.p.), innanzitutto «se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza», con l’aumento di pena fino alla metà (da un terzo che era prima). Inoltre, è stata introdotta una nuova circostanza aggravante «se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici». Quest’ultima disposizione, così come il reato di blocco stradale e ferroviario, è chiaramente rivolta a punire le condotte poste in essere durante le contestazioni contro le cd. grandi opere o le infrastrutture strategiche dello Stato, dunque contro i movimenti No Tav, No Ponte, contro tutti coloro che chiedono – manifestando, anche duramente – interventi infrastrutturali partecipati, ascoltando i territori coinvolti e non infrastrutture imposte dall’alto sulle loro teste.

Il decreto, inoltre, in perfetto stile statunitense, non solo “liberalizza” il possesso di armi da parte delle forze dell’ordine, autorizzando gli agenti di pubblica sicurezza, quando non sono in servizio, a portare senza licenza un’arma privata in luogo di quella di ordinanza (art. 28 del decreto), ma mette a regime ed estende le c.d. “garanzie funzionali” degli agenti del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (SISR) e del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS). Per capirci, è stato “stabilizzato” ed esteso il perimetro di non punibilità degli agenti dei servizi segreti che, su autorizzazione del Presidente del Consiglio, commettono reati a fini istituzionali. Una scriminante che nel tempo si è progressivamente rafforzata, in particolare con il d.l. 18 febbraio 2015, n. 7 (c.d. decreto antiterrorismo),[5] e che il decreto sicurezza ha reso permanente ed esteso ulteriormente. Il dl sicurezza, in particolare, oggi – per prevenire e per combattere il terrorismo, è bene ricordarlo – permette sostanzialmente agli agenti dei servizi segreti di organizzarlo e di alimentarlo: gli agenti possono essere scriminati dai reati «di direzione e organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico» (art. 270-bis, primo comma, cod. pen.), nonché «di detenzione di materiale con finalità di terrorismo» (art. 270-quinquies.3 cod. pen.) e «di fabbricazione o detenzione di materie esplodenti» (art. 435, commi primo e secondo, cod. pen.). Mentre sono state espunte, in sede di conversione, per fortuna, le previsioni che obbligavano tutte le pubbliche amministrazioni a collaborare attivamente con i servizi segreti per la tutela della sicurezza nazionale, anche in deroga a vincoli di riservatezza personale. Previsioni veramente inquietanti, in particolare in un Paese come l’Italia che ha, come abbiamo ricostruito nel penultimo numero della nostra rivista, una storia di eversione e di Stato parallelo e incostituzionale tristemente nota e ancora parzialmente oscura.

In definitiva, come sostiene Andrea Morrone, «non era mai accaduto che con un d.l. si modificasse in modo così generoso il nostro sistema sanzionatorio criminale», con una intensità, secondo l’Associazione italiana dei professori di diritto penale, che mette in dubbio la sua compatibilità con i principi costituzionali «di necessaria offensività, sussidiarietà e proporzione» delle risposte penali, ma anche con il fine rieducativo della pena e con il principio di eguaglianza-ragionevolezza della pena.

Ma al di là della stretta costituzionalità delle singole disposizioni, è la cultura che c’è dietro che preoccupa: il decreto sicurezza conferma una tendenza securitaria schiettamente neoliberale, tutta orientata all’ordine pubblico, che mira a disinnescare, con il ricorso al diritto penale, il conflitto come strumento di confronto democratico. Non dobbiamo, però, commettere l’errore di pensare che la torsione securitaria stia caratterizzando solo le liberal-democrazie governate dalla c.d. destra sovranista – come quella statunitense, quella italiana o quella ungherese (che fanno tanto sbroccare gli antifascisti) – ma sta emergendo anche in quelle governate dai partiti progressisti o centristi. Basti pensare all’approccio repressivo rispetto alle manifestazioni contro il genocidio in corso in Palestina della Germania (dalla cancelleria Sholz, socialdemocratico, fino a quella di Merz, catto-conservatore) e della Francia di Macron (il mito dei renziani, dei calendiani e dei cespuglietti reazionari che popolano il centro dello spettro politico). Oppure si pensi alla vicenda da Stato di polizia di Palestine Action nella Gran Bretagna del laburista Starmer: l’associazione è stata dichiarata come terroristica solo per avere condotto alcune pratiche di disobbedienza civile, come lanciare vernice rosa su aerei militari, bloccare gli ingressi di una fabbrica di armi incatenandosi davanti, o entrare senza autorizzazione in zone militari.

Questa cultura securitaria è trasversale anche in Italia: molte delle disposizioni presenti nel decreto modificano testi normativi approvati da maggioranze sostenute dal PD (come quella sul terrorismo o quella sul Daspo urbano, che vedremo tra poco). Un approccio alla sicurezza che sta snaturando anche la cultura penalistica delle classi politiche, le quali stanno usando il diritto penale non più come uno strumento di extrema ratio per tutelare diritti e beni collettivi da condotte particolarmente dannose, ma come la risposta principale (in quanto apparentemente a costo zero) ai problemi sociali e culturali del Paese.

Il crescente panpenalismo delle classi politiche emerge perfettamente anche in questo decreto. Si pensi, solo per riportare alcune disposizioni molto discusse, al nuovo reato di «occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui» (art. 634-bis cod. pen.), che punisce con una reclusione da 2 a 7 anni sia coloro che «mediante violenza o minaccia» o con «artifizi o raggiri» occupano, detengono senza titolo o impediscono al proprietario di ritornare in possesso di «un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze», sia coloro che si intromettono o cooperano nell’occupazione dell’immobile o ricevono o corrispondono denaro o altre utilità per farlo. Questa disposizione pensata per colpire i delinquenti che occupano impunemente le abitazioni altrui per interessi personali (e secondo alcuni, tipo Mario Giordano in diretta da Battitori Liberi, neanche in modo così efficace), rischia di colpire solo le persone con necessità abitative gravi (come famiglie con bambini o disabili, anziani o persone in forte disagio sociale e/o economico)[6], le quali anziché vedersi aiutare dai poteri pubblici ad avere una dimora decente, rischiano di andare in galera. Senza considerare che, con questo provvedimento, si vogliono colpire chiaramente alcune pratiche di rivendicazione, come l’occupazione di immobili non utilizzati in possesso di società private (giustamente) o pubbliche (meno giustamente), dei movimenti per il diritto alla casa, un diritto ancora non garantito pienamente nel nostro ordinamento, nonostante, secondo la giurisprudenza costituzionale, «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» ed è «incluso nel catalogo dei diritti inviolabili» delle persone.[7]

Oppure si pensi alle norme sulla sicurezza negli istituti penitenziari (art. 26 del decreto) e nelle strutture di trattenimento per i migranti (art. 27). Anziché risolvere il sovraffollamento nelle carceri o a garantire un trattenimento dignitoso a coloro che aspettano di essere rimpatriati o di ricevere i documenti per la circolazione nel territorio italiano ed europeo, che è il disagio sottostante a molte rivolte avvenute recentemente nelle carceri italiane e nelle strutture di trattenimento per i migranti, il governo risponde con il diritto penale.

Nel caso degli istituti penitenziari, con l’introduzione di un’aggravante speciale per il reato d’opinione di «istigazione a disobbedire alle leggi» (art. 415 c.p.), che afferma che «la pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute» (art. 26, comma 1, lett. a). In secondo luogo, con l’introduzione del nuovo reato di «rivolta all’interno di un istituto penitenziario» (nuovo art. 415-bis c.p.) che punisce con la reclusione da 1 a 5 anni chiunque, «all’interno di un istituto penitenziario, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite […]». Inoltre, «Coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da due a otto anni» (art. 26, comma 1, lett. b). Non c’è bisogno di aggiungere molto: se ti lamenti per il sovraffollamento o per ordini illegittimi e ti permetti anche di organizzare e di partecipare ad una protesta, anche passiva, per la condizione disumana in cui ti trovi, rischi di restarci ancora di più in quella condizione. Una norma che colpisce la libertà di espressione delle persone detenute e che dà alla polizia penitenziaria un grado molto elevato di discrezionalità nell’applicazione di queste norme.

Lo stesso vale anche nei centri di permanenza per i rimpatri e nei punti di crisi. La nuova fattispecie di reato, introdotta modificando il Testo unico sull’immigrazione, punisce con la pena della reclusione da 1 a 4 anni chiunque, durante il trattenimento in una delle due strutture su richiamate, «partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione di ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, commessi da tre o più persone riunite». Una norma che, oltre alle criticità sottolineate prima per i detenuti, equipara erroneamente e tendenziosamente persone in situazioni completamente differenti, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica: da un lato, abbiamo persone che sono recluse per l’esecuzione di una pena irrogata con sentenza passata in giudicato; dall’altro abbiamo persone che si trovano in quelle strutture per esigenze di gestione amministrativa del fenomeno dell’immigrazione.

Infine, si pensi al nuovo provvedimento di allontanamento deciso dal questore, che arricchisce il già ampio pacchetto di misure di prevenzione in mano alle forze di polizia (noto come Daspo urbano o Dacur): «Il questore può disporre il divieto di accesso […] anche nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per alcuno dei delitti contro la persona o contro il patrimonio, di cui al libro secondo, titoli XII e XIII, del codice penale, commessi in uno dei luoghi indicati all’articolo 9, comma 1 (aree delle infrastrutture di trasporto e alle loro pertinenze)». Una discrezionalità in capo al questore e una indeterminatezza della sanzione così ampia che, non solo fa sorge qualche dubbio di costituzionalità, ma mira chiaramente a gestire la sicurezza urbana – soprattutto nelle zone più affollate, come le stazioni – attraverso la marginalizzazione di categorie di persone sgradite: una norma pensata per i rom che rubano nelle stazioni, che colpirà anche le persone, come quelli senza fissa dimora, che dovrebbero essere prese in carico dai poteri pubblici, anziché essere trattate come dei delinquenti.

Anche nel decreto Caivano, il governo ha avuto lo stesso approccio, con il reato di «inosservanza dell’obbligo dell’istruzione dei minori». Questo nuovo reato punisce – anziché con la sola contravvenzione – con la reclusione da 1 a 2 anni «il responsabile dell’adempimento dell’obbligo scolastico di istruzione che, ammonito […], non prova di procurare altrimenti l’istruzione del minore o non giustifica con motivi di salute, o con altri impedimenti gravi, l’assenza del minore dalla scuola, la mancata iscrizione del minore presso una scuola del sistema nazionale di istruzione, o non ve lo presenta entro una settimana dall’ammonizione». Inoltre, il decreto Caivano estende il DASPO urbano anche nei confronti di soggetti minori che hanno compiuto 14 anni, permettendo, paradossalmente, di applicare il divieto di accesso anche a scuole, plessi scolastici, sedi universitarie, locali pubblici o aperti al pubblico (un cortocircuito in pratica).

Insomma, ai crescenti bisogni di protezione delle persone (che hanno bisogno di una casa; che hanno bisogno di cure e presa in carico dai servizi sociali; che hanno bisogno di scontare una pena, aspettare di ritornare in patria o avere un visto in condizioni umane; che hanno bisogno di essere nelle condizioni economiche e sociale adeguate per mandare i figli a scuola), il governo Meloni risponde con il diritto penale, utilizzato non per proteggere diritti e beni collettivi, ma per marginalizzare le persone in ragione della loro identità, della categoria sociale a cui appartengono o del luogo in cui commettono un reato.

Anche qui, però, non bisogna pensare che solo la destra in Italia è portatrice di questo tipo di approccio. Anche il centrosinistra ha utilizzato e propone spesso l’uso del diritto penale per risolvere problemi sociali o problemi culturali, che andrebbero affrontati seriamente e diversamente. Basti pensare al paradigma delle “Città sicure” (che Tamar Pitch ci ricorda in un suo recente scritto), nato in Emilia Romagna: un mix di sicurezza sociale e sicurezza pubblica che ben presto si trasformò solo in sicurezza pubblica, sfociando nei “Pacchetti sicurezza” di Minniti/Orlando; oppure ai numerosi reati di opinione che costantemente il centrosinistra ha introdotto/o propone di introdurre per combattere le discriminazioni di genere, le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale o sulle abilità psicofisiche delle persone. Anche lo stesso femminicidio, recentemente approvato dal Parlamento all’unanimità e criticato da moltissime penaliste italiane, rientra in questa cultura che crede che i problemi culturali e sociali si risolvano a suon di reati e manganello.

L’approccio panpenalista del governo di Meloni, dunque, non mi sorprende: è l’ennesimo frutto avvelenato dell’austerità liberista, che porta ad una politica securitaria apparentemente a costo zero, fatta di proclami, diritto penale e misure di limitazione della libertà (come i Daspo), ma che condurrà, invece, ad un sovraccarico della giustizia ed un ulteriore sovraffollamento delle carceri, oltre a far crescere il disagio sociale. È una politica emblema della resa ai vincoli di bilancio, i quali, non solo impediscono qualsiasi politica sociale, di sostegno e di risposta ai bisogni delle persone, ma, paradossalmente, impediscono anche le tradizionali politiche securitarie della destra, centrate non tanto sui reati, ma sugli investimenti nelle forze dell’ordine, nei loro mezzi e nelle loro risorse.

L’unica soluzione, dunque, è ribaltare il paradigma. Gridare al fascismo o pensare che queste siano politiche solo della destra è fuorviante. Bisogna fare una battaglia culturale trasversale che metta in discussione il vero moloch che impedisce di dare risposte diverse alle persone che chiedono protezione: i vincoli di bilancio europei. Ritornando a mettere al centro le politiche sociali, prima (e spesso al posto) delle politiche di sicurezza e ad essere liberali nell’unica cosa in cui vale la pena esserlo: nell’uso del diritto penale come extrema ratio per tutelare diritti e bisogni collettivi.

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[1] Il decreto-legge è riuscito a suscitare l’opposizione congiunta dell’Associazione Nazionale Magistrati e dell’Unione delle Camere Penali (da sempre collocati su posizioni opposte); è stato oggetto di documenti critici dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, di 257 professori di Diritto costituzionale e di Diritto pubblico.

[2] Sì, utilizzo “rispolverare”, perché proprio nella Relazione novità normativa n. 33/2025, a cura dell’Ufficio del massimario della Corte di cassazione, tanto criticata dal governo, emerge come questa prassi era già stata utilizzata in precedenza, anche se mai in materia penale e mai con un decreto così esteso.

[3] Il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162 convertito in legge 30 dicembre 2022, n. 199.

[4] Il d.l. 15 settembre 2023, n. 123 (convertito in l. 13 novembre 2023, n. 159. Per approfondire si v. A. Massaro, La risposta “punitiva” a disagio giovanile, povertà educativa e criminalità minorile: profili penalistici del c.d. decreto Caivano, in Processo penale e giustizia, n. 2, 2024, p. 488

[5] L’articolo originario (contenuto nella legge n. 124/2007) proteggeva gli agenti solo per la partecipazione ad associazioni con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis, comma 2) o ad associazioni di tipo mafioso anche straniere (art. 416-bis, comma 1). Con il decreto antiterrorismo del 2015, gli agenti sono protetti anche dalla partecipazione ad associazione sovversiva (art. 270, comma 2), dall’assistenza agli associati di quel tipo di associazioni; dall’arruolamento con finalità di terrorismo, anche internazionale (art. 270-quater); dall’organizzazione di trasferimento per finalità di terrorismo (art. 270-quater.1); dall’addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270-quinquies); dal finanziamento di condotte con finalità di terrorismo (art. 270-quinquies.1); dall’istigazione a commettere alcuno dei delitti contro la personalità internazionale e interna dello stato (art. 302); dalla partecipazione a banda armata (art. 306, secondo comma); dall’istigazione a delinquere (art. 414, quarto comma).

[6] Nella Relazione novità normativa n. 33/2025, a cura dell’Ufficio del massimario della Corte di cassazione vengono riportate alcune situazioni sociali di difficoltà che questo decreto rischia di colpire: occupanti un immobile per necessità; soggetti nei confronti dei quali sono stati emessi provvedimenti esecutivi di sfratto per morosità e/o per finita locazione; soggetti nei confronti dei quali è in corso una procedura esecutiva immobiliare per intervenuta risoluzione del contratto di mutuo fondiario; soggetti che non sono in grado di provare l’esistenza di un contratto di locazione verbale; soggetti che occupano un’abitazione in base ad un contratto di sublocazione non autorizzato o in cambio di prestazioni e/o servizi; soggetti occupanti in virtù di un contratto di comodato, privi di alcun contratto o vittime di un falso contratto di locazione; soggetti senza fissa dimora occupanti immobili abbandonati; soggetti che risiedono in campi e insediamenti non autorizzati.

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