Occhiuto rompe il silenzio: il vero marcio è nei palazzi, non solo nei tribunali
Il presidente della Calabria si dimette e si ricandida: non per sfuggire ai giudici, ma per smascherare chi trama nell’ombra usando la giustizia come arma.
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Una denuncia scomoda che chiama in causa il coraggio e la trasparenza nella politica.
Nel clima avvelenato che troppo spesso circonda la vita pubblica italiana, può capitare che anche le parole limpide vengano travisate, o peggio, usate contro chi le pronuncia. È il caso delle dichiarazioni del presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, che negli ultimi giorni sono state frettolosamente archiviate come l’ennesimo attacco alla magistratura. Ma chi abbia davvero ascoltato ciò che Occhiuto ha detto, senza paraocchi ideologici o malafede interpretativa, sa bene che il suo bersaglio non erano le toghe, bensì certi politici. E spesso, ironia della sorte, politici a lui vicini per collocazione partitica.
Occhiuto ha avuto il coraggio di rompere un tabù. Ha detto ad alta voce ciò che molti, in privato, ammettono: che una parte della politica — la peggiore, quella fallita, rancorosa, fatta di mezze figure che non ce l’hanno fatta — si serve della magistratura come strumento di lotta politica. Non per amore della giustizia, ma per vendette personali, per gelosie, per incapacità di costruire consenso in modo trasparente.
È questo il cuore della denuncia di Occhiuto. Non la solita invettiva contro giudici “ideologizzati”, ma un’accusa precisa a certi suoi colleghi politici: quelli che lo ostacolano, che lo boicottano, che preferiscono paralizzare l’azione di governo piuttosto che misurarsi a viso aperto con le sfide del cambiamento. E che, non avendo il coraggio di affrontarlo alla luce del sole, delegano alla giustizia il compito di farlo cadere. Vigliacchi in doppiopetto, non martiri della legalità.
Per questo Occhiuto ha scelto una strada tanto radicale quanto rischiosa: le dimissioni. Un gesto forte, che non va letto come una resa, ma come una richiesta di verità al popolo calabrese. “Ricominciamo da capo”, sembra dire. “Giudicate voi, non i dossier, non le veline, non le insinuazioni”. È una sfida di democrazia diretta. Una nuova investitura popolare per zittire non i magistrati, ma coloro che li usano come scudi e clava.
La Calabria, in questo senso, è una cartina di tornasole. Non è la prima volta che figure istituzionali vengono stritolate da inchieste poi rivelatesi inconsistenti. Basti ricordare il caso dell’ex presidente del Consiglio regionale Oliviero, travolto da una raffica di procedimenti poi archiviati o conclusi nel nulla. Una parabola che ha lasciato macerie non solo nelle biografie personali, ma nella fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Non si tratta di difendere Occhiuto “a prescindere”. Si tratta di ascoltare, capire, andare oltre la superficie. E magari avere il coraggio, per una volta, di ammettere che sì: il problema, spesso, non è nella magistratura che indaga, ma nella politica che la strumentalizza. Una verità scomoda. E dunque, ancora più necessaria da dire.
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