Il lupo cattivo a Milano: ritratto di un paese vecchio e reazionario
Attorno all’inchiesta sull’edilizia milanese, il dibattito non sembra fra destra e sinistra o fra garantisti e giustizialisti, ma fra chi vuole affrontare il futuro e chi lo teme. Al di là dei reati (se ci sono), il cedimento di un paese barricato in casa.
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Attorno all’inchiesta di Milano, battezzata da qualche giornale Grattacielopoli, con approccio semantico testimone della nostra apertura mentale, non sembra essersi riaperta la classica sfida fra garantisti e giustizialisti – per quanto abbia mai avuto senso la sfida, se il garantista è chi si appella alla norma costituzionale, mentre il giustizialista alla deroga in nome dell’emergenza. Resta da segnalare il sollievo nell’ascoltare le parole di Giorgia Meloni, a proposito del sindaco Beppe Sala: non è un avviso di garanzia a stabilire se un sindaco debba andarsene o no. Parole da cui dissente Stefano Patuanelli, noto Richelieu del Movimento cinque stelle di cui è capogruppo al Senato, secondo il quale il garantismo si esaurisce nel considerare un indagato innocente fino a condanna definitiva, e però i rilievi etici impongono a Sala di dimettersi lo stesso. Anche qui, dibattito e dottrina non manifestano progressi apprezzabili.
Né la discussione accende le classiche categorie di innocentisti e colpevolisti, duellanti in un gioco di società basato su presupposti più classici di cose come traffico d’influenza e induzione indebita: un cadavere e una pistola, per esempio, o un politico e il suo corposo conto all’estero.
Prende invece consistenza e anzi esplode una contesa vecchia di qualche anno, sull’evoluzione di Milano che con l’Expo e subito dopo era definitivamente uscita dalla depressione post Tangentopoli e aveva ripreso il suo posto nel mondo del progresso, con i nuovi grattacieli, la finanza ritornata robusta, l’esplosione delle start up, accompagnati da uno sguardo e un respiro globale. Ci sono anche lati oscuri, obiettava sempre qualcuno, non a torto: il costo crescente e proibitivo delle case, l’espulsione dei meno abbienti, il fenomeno oggi molto sottolineato delle gentrificazione. Che poi a Milano è un problema eterno – noi qui abbiamo ricordato un paio di volte le parole di Luciano Bianciardi nella Vita agra, sull’insostenibile portata dell’affitto del suo appartamento a Brera. E da sempre Milano va letta guardando come si moltiplicano e ramificano le linee della metropolitana, a creare nuovi luoghi residenziali, e sempre a pochi minuti di metro dal centro. E però questa volta tutto procedeva un po’ troppo alla svelta, un po’ troppo bruscamente, secondo i ritmi tambureggianti della rivoluzione digitale e della globalizzazione. Non è successo solo a Milano: un po’ in tutte le grandi capitali europee. Non è consolante, ma è un elemento in più e non trascurabile.
La cattiveria dei ricchi e la sfortuna dei poveri è argomento appassionante dalla notte dei tempi: in genere vincono i ricchi e tutta la simpatia va ai poveri. Va bene. Ma, al dà dei feuilleton, in questo caso e per la millesima volta emerge l’incapacità della politica di governare la rivoluzione digitale. Nella migliore delle ipotesi, ci si abbandona ad essa con entusiastica fiducia; nella peggiore, la si combatte come mostro liberista corruttore dei buoni costumi del bel tempo che fu. Si è letto persino della nostalgia delle case di ringhiera come epicentro della milanesità laboriosa e onesta spazzata via da acciaio e algoritmi. Alcuni artisti – del cinema e della letteratura – hanno agevolmente espresso la loro costernazione per l’inabissarsi di una città consegnata alla volgarità dei nuovi ricchi e in cui dopo il tramonto ci si barrica in casa per scampare agli aguzzini. Tutto si può dire, nostalgia canaglia. E però a Milano, negli anni Settanta e nei primi Ottanta, fra il terrorismo e la mala, il controllo dei quartieri e dei locali, c’erano centocinquanta omicidi l’anno. Ancora nel 1999 ce ne furono trenta. Nel 2024, due. I delitti in genere sono in ulteriore calo del 13 per cento. Però la modernità ci impone di chiuderci in casa per aver salva la vita.
La crisi demografica si fa sentire nel discorso pubblico prima ancora che nei conti dell’Inps. Un paese vecchio, e avviato a invecchiare sempre più, trasforma un’inchiesta penale non ancora chiarissima nell’occasione per processare eticamente e molto confusamente un sistema, una visione del mondo, e cioè una contemporaneità che ha tradito i costumi nei quali siamo cresciuti saldi. Una società vecchia disprezza il presente debosciato e teme il futuro minaccioso, inevitabile. Anziché giudicare gli imputati, se ce ne saranno, per i reati che hanno commesso, se saranno appurati, si giudica lo spirito del tempo. E il giudice è una società che vieta i telefonini in classe, non sa nemmeno dove sia di casa la realtà virtuale dedicata alla didattica, proibisce la carne coltivata in difesa delle belle mucche (da macellare) dei nostri prati, non si dota di un ministero del Digitale, acquista angosciata online mentre sparge lacrime per le botteghe di una volta, protesta per i nuovi schiavi mentre un sindacato novecentesco non sa intercettarli e tutelarli, e tutto questo e molto altro in capo a decenni di battaglie contro l’alta velocità, i rigassificatori, persino i radar.
Una gerontocrazia che promette di bloccare anche questa volta il capoluogo di una Regione, la Lombardia, che fa quasi un quarto del Pil italiano. Buona giornata a tutti e mi raccomando: chiudete bene la porta ché fuori c’è il lupo cattivo.
di Mattia Feltri Direttore di HuffPost
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