Una riforma per trasformare in supplizio la tortura dell’ingresso a medicina
Si voleva abolire il numero chiuso e si è studiato un sistema che di fatto lo conferma: una macchina diabolica per moltiplicare l’incertezza. Intanto arriva lo tsunami della medicina di precisione: tutte le università del mondo pensano a come affrontarlo, tranne quelle italiane.
In evidenza

Si vuole la prova provata che a causare danni ai giovani siamo noi adulti? E che i danni li causiamo sia non facendo niente sia pensando di fare bene, ma senza riflettere sulle dimensioni reali dei problemi e avere idea delle conseguenze? Eticamente sono la stessa cosa. Cioè si tratta di comportamenti non etici nella misura in cui hanno come conseguenza danni ad altre persone. Ma se il danno è il più grave possibile, intuitivamente e nel diritto emettiamo diverse sentenze: si pensi alle diverse figure penali dell’omicidio per mancato soccorso.
Ebbene la metafora calzerebbe, nel giudizio, con le riforme e non riforme scolastiche che si fanno in Italia. La più disgraziate e pericolosa, da anni a questa parte, è quella dell’ingresso a medicina in via di applicazione, con i relativi decreti attuativi. Le vittime in questo caso sono gli studenti che aspirano a diventare medici. Molto probabilmente, ma spero di sbagliarmi perché almeno io in prima istanza provo sentimenti di affettività verso i giovani, sarà una mattanza. E non una tantum. Ma continuata negli anni per larga parte di chi decide di attraversare la valle della morta in cui consiste la riforma, non una ma ben tre volte. E poi dicono: ah, questi giovani non sono più quelli di una volta. Per fortuna, vien da dire! Hanno ancora la possibilità di essere genitori e professionisti/insegnanti migliori di chi oggi decide per loro. Difficile fare peggio, anche se al peggio non c’è un limite.
La pedagogia della medicina è uno dei temi più affascinanti che ho incontrato nelle mie ricerche. Ci ho anche speso del tempo per ricostruirne in modi un po’ dettagliati la “storia” nel suo secolo d’oro, il Novecento. Qui devo precisare una misinterpretazione del mio articolo sulla storia: una precisazione che so che per alcuni peggiorerà il giudizio. Non ho mai scritto, come qualcuno in malafede mi vuol fare dire, che non c’è un modo per fare utilmente storia. Ho detto che la storia “culturale”, quella che prevale e piace ai seguaci del giullare moralista Alessandro Barbero, ma anche degli storicisti come Karl Marx o Benedetto Croce, tanto per citare nomi conosciuti, è inutile per capire il presente o è pesantemente fuorviante. Mentre è utile, e modestamente provo a praticarla nel mestiere che svolgo, quella “naturalistica”, basata su fatti, inclusi riscontri documentali (non per sentito dire o “e allora ha/hanno pensato che”, o “le idee o visioni XYZ che circolavano hanno portato alla rivoluzione T”, etc.), modelli di comportamenti umani plausibili sotto il profilo evolutivo e neuropsicologico, caratterizzazione dell’ecologia o contesto qualitativo e quantitativo degli accadimenti, etc. Del resto, la vita è storia naturale: Darwin docet! Non solo culturale. Perché anche la cultura è natura. Amen.
Torniamo alla pedagogia medica che esiste dal tempo degli sciamani, se vogliamo, ma vede una svolta decisa di progresso quando la medicina diventa scientifica, cioè basata su esperimenti controllati. Questo accadeva da metà Ottocento in Francia, Germania e un po’ in Gran Bretagna, ma esprimeva tutto il potenziale di ricerca, formazione e produzione di salute negli Stati Uniti. Sarebbe lunga, ma la sostanza è che nel 1910 fu fatta una riforma in Nord America che chiudeva tutte le scuole mediche inefficienti e creava un sistema di insegnamento che sarebbe durato oltre mezzo secolo e in parte sopravvive anche ora nei corsi di laurea. Abraham Flexner, un pedagogista che visitò le facoltà mediche europee, soprattutto quelle tedesche, inventò un modello, già in funzione peraltro alla Johns Hopkins University di Baltimora, per cui i corsi di medicina erano su quattro anni (ai quali si sarebbero aggiunti programmi che aggiungevano anni per differenziare la preparazione verso la clinica o la ricerca) e nei primi due si insegnavano solo le scienze di base in laboratori di ricerca ben attrezzati. Soltanto dopo entrava in gioco la clinica, che doveva essere praticata con una impostazione scientifica nel ragionamento, e questa si imparava in ospedali universitari, dove arrivavano e si inventavano le più avanzate tecniche diagnostiche e operatorie. Quella formazione fu esportata in tutto l’occidente e diede luogo nel tempo ai centri medici più innovativi e all’avanguardia e a clinici e ricercatori che facevano scuola nel mondo. Inclusa l’incetta di Nobel per la fisiologia e la medicina.
Il sistema funzionava bene fin che le malattie più rischiose erano soprattutto acute (es. infettive, traumi, etc.). Quando queste furono messe sotto controllo con vaccini e antibiotici o l’invenzione della respirazione artificiali, della dialisi etc., la vita si allungava e si potevano anche tenere in vita malati che prima morivano. Inoltre esplodevano epidemiologicamente i tumori, le malattie cardiovascolari, il diabete, le malattie allergiche o autoimmuni, le demenze, le malattie mentali, etc. Serviva un altro genere di medico. Non necessariamente scienziato, ma capace di usare la scienza e soprattutto l’epidemiologia clinica. Ma anche che sapesse parlare con il malato, che si rendeva conto che per il fatto di entrare in ospedale o dover stare in posizione orizzontale non perdeva i suoi diritti fondamentali. Decidere cosa fare lo dovevano negoziare medico e paziente, con quest’ultimo ad avere l’ultima parola.
Il medico della società del benessere, non necessariamente quello che opera e studia la malaria in Africa subsahariana, non deve ambire a essere uno scienziato se intende esercitare la medicina, ma saper risolvere i problemi dei pazienti. O la corsia o il laboratorio. Se sceglie la corsia deve essere in grado di usare tutte le conoscenze cliniche esistenti, cioè cercare nella letteratura usando le banche dati e internet, per trovare le soluzioni valide o meglio controllate per efficacia a proporre o applicare a quel singolo paziente (e ai pazienti con le stesse caretteristiche). Se vuole appoggiarsi anche al laboratorio, lo fa in modo non schizofrenico. Insomma, bisognava snellire e rendere più dinamico l’apprendimento. Come cambiavano i problemi medico-sanitari e l’epistemologia della medicina, doveva cambiare anche la pedagogia medica, che veniva rifondata sul problem based learning. Che cosa sia, lo dice la locuzione stessa. I medici vanno messi il più rapidamente possibile di fronte ai casi clinici, senza aspettare necessariamente il terzo anno, e aiutati da tutor a imparare a circoscrivere un problema clinico e ad accedere alle conoscenze di base ma soprattutto alla letteratura clinico-epidemiologica utile caso per caso, relativamente alle diverse specialità (neurologia, gastroenterologia, cardiologia, etc.).
Ora sta arrivando lo tsunami della medicina di precisione o personalizzata, che in parte aggiorna l’epistemologia medica, per cui si dovrebbe fare un salto di qualità, cioè cambiare in parte i metodi di insegnamento e apprendimento. Ci si sta ragionando e sono in corso tentativi in diversi angoli del pianeta. Non in Italia, ovviamente.
I progressi scientifici della medicina hanno avuto una accelerazione imprevedibile. Si dice che 70 anni fa un medico quando usciva dall’università riusciva a terminare la carriera senza quasi bisogno di aggiornarsi se non per sapere i nuovi farmaci (ci pensavano i rappresentati delle aziende farmaceutiche visitandolo in ambulatorio, a istruirlo), mentre oggi quando gli studenti escono dall’università, larga parte di quello che hanno imparato è già obsoleto. Questo solleva non solo il problema di cosa e come insegnare, e come preparare a una educazione continua in medicina. Ma anche di come selezionare chi formare come futuro medico sulla base delle disposizioni che dimostra. Insegnare medicina costa, richiede tempo e molta concentrazione: non si impara lasciando che mandrie di adolescenti manipolati da ormoni facciano chiasso e trucchino agli esami, facendo crollare la qualità della formazione, quindi anche dei medici che vengono sfornati.
Nelle università più prestigiose al mondo e che continuano a fabbricare premi Nobel, come Cambridge, Oxford, Harvard, Stanford, Yale, ma anche in Olanda, etc. questo processo è lungo, ma contenuto in circa un anno o meno. Si parte dal curriculum dello studente e dal punteggio conseguito nella formazione preuniversitaria, quindi prevede, mutatis mutandis, la compilazione di test o di compiti, l’invio di testi scritti dallo studente in cui racconta le proprie motivazioni, altri compiti, fino ad arrivare, nelle migliori scuole di medicina, a un numero congruo di candidati dal quale gli eletti sono scelti a seguito di un colloquio. Tutti possono provarci, ovviamente, ma progressivamente l’imbuto si restringe. Chi resta fuori ha tempo per cercare una diversa facoltà o scuola di medicina, e alla fine è più probabile ottenere le eccellenze. Là dove sono la prima e unica scelta. Questo è il modo migliore. Non manca di difetti ma è testato come l’unico, tra quelli provati, che premia e seleziona i meritevoli.
Da noi c’è dal 1987 il numero chiuso, dovuto all’affollamento delle facoltà di medicina a seguito dell’apertura a tutti 1969 (fino ad allora si accedeva solo con le licenze liceali), con i test per l’ammissione formalizzati dalla Legge 264/1999, dopo la legittimazione della Corte costituzionale con la sentenza n. 393 del 1998. La riforma andata in Gazzetta il 15 maggio scorso, si dice che abolisca il numero chiuso e il test, e riduca le diseguaglianze economiche che limitano l’accesso. Ma come in un gioco di prestigio, ecco che il numero chiuso rimane, e anche il test (ma peggiorato) e aumentano le diseguaglianze. Infatti, tutti si potranno iscrivere a medicina: invitati da un metaforico Mangiafuoco che irretisce migliaia di pinocchi. Si offrono tre mesi di corsi (fisica, chimica e propedeutica biochimica e biologia), a pagamento ovviamente, facendo credere che ci si è iscritti a medicina e a un certo punto non si entra in un imbuto, ma si viene lanciati in un setaccio a maglia variabile (“semestre filtro” lo chiamano) che non filtra la capacità critica ma la disposizione al nozionismo: un test sempre nazionale con 93 quesiti (31 per ogni materia, 15 a crocette con risposta multipla e 16 a completamento di frasi) che serve a chiudere l’accesso a medicina a chi arriva nella graduatoria dopo un numero più o meno equivalente agli anni passati. L’ondata devastante di iscrizioni ai corsi potrebbe scardinare le strutture universitarie non sufficientemente capienti, così ogni università potrà scegliere le modalità didattiche che preferisce (presenza, distanza, aule specchio): esiste una soglia di frequenza e si devono rilevate (chissà in che modo “controllabile”) le presenze. Un delirio, pensato da menti perverse e prive di un minimo di affettività per i ragazzi.
Quanto alla diseguaglianza, le agenzie che chiedevano soldi per preparare i ragazzi al test unico, si stanno riorganizzando per prepararli ai corsi, aiutare a seguire i corsi e preparare al test: come prima chi avrà più soldi sarà meglio preparato a prescindere da motivazione, capacità critica, etc. Ma ora ne occorreranno anche di più. C’è poi il vincolo dei contenuti dei programmi di insegnamento: alla faccia dell’autonomia delle università in materia di programmi dei corsi e della libertà accademica.
L’insensatezza della riforma è stata ampiamente denunciata, ma chi governa assume di poter fare tutto quello che gli passa per la testa, senza dar conto di un razionale o produrre uno studio che spieghi perché decide in un modo piuttosto che in un altro. Dar conto a chi paga le tasse (anche se meno di metà del paese), significa esercizio onesto o trasparente del “potere” in democrazia. Ci si è avvalsi degli “esperti”, ma gli psicologi cognitivi hanno ben spiegato la pericolosità sociale degli esperti. Un fatto molto triste è che chi conosce e sa più o meno come si guida la macchina universitaria, si presti a truccarla e usarla contro gli studenti. Invece di investire tempo a ragionare su come adeguare l’insegnamento e l’apprendimento della medicina alle sfide della precisione e personalizzazione delle cure. Ci si inventa un sistema millantato come cambiamento epocale, ma che non cambia nulla. Anzi peggiora.
Quello che nessuno considera, e che è la questione forse più importante, è l’impatto psicologico su circa 80mila giovani (forse di più, nessuno può prevedere), che saranno trascinati nell’incertezza e in una competizione pseudo-meritocratica per almeno tre-quattro mesi. Poi potranno fare tre tentativi per superare il semestre filtro: tra quelli che non ce la faranno forse qualcuno sarà motivato anche a suicidarsi. Senza contare le lungaggini dovute alle migliaia di ricorsi prevedibili. Tutti i giorni che Dio comanda sentiamo dire che i nostri giovani sono mentalmente fragili. I capri espiatori che fanno comodo sono internet e i dispositivi digitali. Qualcuno spiega, nella sordità più totale di genitori e dei soliti “esperti”, che questi non sono la causa, ma il sintomo.
Un fattore seriamente implicato nella loro condizione psicologica è l’incertezza di un futuro che vedono carico di nubi minacciose; incertezza che viene anche esagerata dall’ansia dei genitori o dalla loro indifferenza (producono le stesse conseguenze). E poi moltiplicata dalle pressioni, per cui chi sin dalla scuola materna non fa tutte le attività extrascolastiche che fanno gli altri e poi non va all’estero a studiare le lingue o a seguire master su master (ma ci possono andare solo i figli di noi benestanti), è uno sfigato o un fallito. Infine, c’è la presunzione degli esperti, dei boss politici delle università, ai quali la riforma non piace, ma obbediscono. Come si fa a obbedire servilmente: si fa finta di sapere cosa sia meglio fare, senza contatti con la realtà, che i nostri fanno entrare nelle loro minuscole gabbie mentali, tagliandone via larghissime pezzi (della realtà), fino al punto che diventa irriconoscibile. Così si ostinano a non capire il mondo nel quale viviamo e che non è più quello della loro adolescenza. Chissà, come si sentiranno psicologicamente i ragazzi, mentre le loro aspettative e motivazioni vengono puntate, alla cieca, come fiches in un crudele gioco d’azzardo per adulti.
di Gilberto Corbellini su HuffPost
Altre Notizie della sezione

Perché il referendum sulla cittadinanza è andato peggio del previsto.
12 Giugno 2025Il 34,5 per cento dei votanti si è dichiarato contrario al dimezzamento del requisito di residenza legale per diventare cittadini italiani. La prova che molti iscritti al sindacato aderiscono a una narrazione populista sull’immigrazione.

Decreto-legge liste d’attesa nel pantano
11 Giugno 2025Dopo un anno, mancano metà dei 6 decreti attuativi.

Sondaggio politico
10 Giugno 2025Fratelli d'Italia e Pd crescono In ascesa anche il M5S secondo il rilevamento Swg per il Tg La7.