L’organismo italiano di contabilità e i dati contabili delle casse di previdenza
Istruzioni per la lettura del bilancio.
In evidenza

Il 15 maggio 2025 la Commissione parlamentare di controllo sull’attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale, ha esaurito le audizioni con i rappresentanti dell’Organismo italiano di contabilità ed ora si attende il deposito della relazione conclusiva i cui esiti verranno resi noti e commentati nel corso di un convegno che si terrà in Parlamento l’8 luglio prossimo.
Nel corso dell’audizione OIC (Organismo italiano di contabilità) ha affrontato alcuni temi di estremo interesse per gli iscritti, se trovassero il tempo di esaminare i bilanci consuntivi delle rispettive Casse di appartenenza.
Il primo tema affrontato è rappresentato dai crediti contributivi.
Per OIC «I crediti sono le somme che le casse di previdenza non incassano ancora dai propri iscritti. Possono essere dovuti a somme iscritte a ruolo, a somme oggetto di regolarizzazione o a somme per le quali non è ancora scaduto il termine per il pagamento. Vanno nell’attivo, vanno al netto di eventuali perdite e devono essere oggetto di valutazione, cioè devono essere iscritte in bilancio al netto di perdite probabili di valore.
Come si fa questa valutazione? Ovviamente non è possibile a livello individuale, deve essere fatta a livello di portafoglio per masse. Ciò non toglie che potrebbe essere opportuno, all’interno del portafoglio, individuare delle classi omogenee in termini di rischio e di possibili ricadute, per esempio per area geografica, per anzianità o per reddito, in modo da capire il livello di esposizione della cassa al rischio. Come si fa a valutare la presenza di un rischio? Si fa uso di alcuni indicatori di buonsenso. Un primo indicatore, in particolare nel caso delle casse, è l’anzianità del credito: più un credito è anziano, più un credito è vecchio, maggiori sono le probabilità che io finisca con il non incassarlo. Un altro indicatore importante è rappresentato dalle serie storiche: in passato io quanto sono riuscito a incassare in percentuale? Il 90 per cento o il 60 per cento? Ciò vuol dire che per differenza io riesco a capire quali sono le possibili perdite al riguardo.
Che cosa abbiamo riscontrato? Non è un’indagine statistica – la possiamo fare, se ritenete – ma solo l’esame di alcuni bilanci. Abbiamo riscontrato una certa eterogeneità nei criteri di valutazione e, soprattutto, nell’informazione che viene data in bilancio.
C’è una cassa di previdenza – ne ho esaminate poche visto il tempo –, l’Ente di previdenza e assistenza pluricategoriale, per esempio, che per i crediti ha una tabella dove indica le percentuali di svalutazione. Tutti i crediti fino al 2012 sono oggetto di svalutazione al 97 per cento. Dal 2012 in poi, ogni anno c’è un salto: una svalutazione al 90 per cento, all’80 per cento, al 70 per cento, fino ad arrivare al 2022 con una percentuale del 10 per cento, gli ultimi due anni sono del 6 e del 3 per cento. Io non posso dire se è corretto o non corretto, però c’è una ragionevolezza in questo tipo di approccio.
In un altro caso, invece, per esempio la Cassa dei ragionieri, non c’è un’informazione adeguata. Infatti, se vado a leggere la nota integrativa e vedo come sono trattati questi crediti, l’informazione mi dice che i crediti fino al 2012 sono completamente svalutati. Quindi, da questo punto di vista mi sentirei tranquillo, perché sono stati addirittura più prudenti dell’altra cassa che vi ho citato. Poi, mi dice che anche i crediti per sanzioni e interessi sono oggetto di integrale svalutazione. E fin qui è un elemento sicuramente di prudenza. Il problema è che non mi dice niente su ciò che sta in mezzo. Dal 2013 al 2024 sono stati oggetto di svalutazione? L’ipotesi più probabile è che ci sia – voglio essere benevolo – un difetto di informazione. Quindi, non viene chiarito se, come e in base a quali criteri sono stati oggetto di una svalutazione. Questa, però, è una carenza non secondaria. L’altra possibilità, che ovviamente mi sentirei di escludere, è che non ci sia un processo di svalutazione rigoroso in proposito».
Si è poi passati all’esame delle attività finanziarie.
«Le attività finanziarie hanno una composizione piuttosto eterogenea. Possono essere delle partecipazioni, dei titoli, delle quote di società. La natura è abbastanza diversificata. Ciò che può cambiare è la finalità per cui io faccio un investimento come cassa in un’attività finanziaria. L’investimento potrebbe essere – dovrebbe essere questa la regola – un investimento a lungo termine, oppure un investimento a breve termine in cui io compro per rivendere, compro per fare un’attività di trading.
Il trattamento contabile è una conseguenza non tanto della natura dell’attività quanto della finalità gestionale. Infatti, se faccio un investimento a breve con l’obiettivo di vendere e il valore di mercato scende al di sotto del costo – il criterio generale è che le attività immobilizzate, secondo il codice civile e i princìpi contabili, devono essere iscritte in bilancio in base a quello che ho pagato, al costo sostenuto o al costo di costituzione della società –, dunque se il valore di mercato per un’attività non immobilizzata, che quindi sta nell’attivo circolante, scende al di sotto del costo, vuol dire che sto perdendo, vuol dire che ho comprato per rivendere e che non ho quella possibilità. In questo caso c’è un obbligo, sempre secondo il codice civile e i princìpi contabili, di procedere immediatamente alla rilevazione di quella perdita. Quindi, se compro un titolo a cento e sul mercato ora vale novanta, lo devo svalutare. Se poi risale, lo rivalutiamo.
Diversa è la logica per quanto riguarda le attività immobilizzate. Il mio obiettivo, in quel caso, non è vendere, quindi una variazione negativa sul mercato potrebbe essere – lo sottolineo, potrebbe – un dato contingente temporaneo, nel senso che l’andamento del mercato mi potrebbe permettere un recupero nel tempo. Ebbene, in questo caso la legge e i princìpi contabili mi permettono di non svalutare o, meglio, mi obbligano a svalutare solo se quella perdita è considerata durevole, ovvero destinata a durare nel tempo.
C’è una logica in tutto questo. Se nel tempo mi rendo conto che ho sbagliato, mi rendo conto che sono stato troppo prudente, mi rendo conto che il titolo riacquista valore, io ho la possibilità di procedere a una rivalutazione. Tuttavia, la rivalutazione deve avvenire sempre nei limiti del costo. Questo vuol dire che, se ho fatto un investimento su un titolo di un milione di euro, il titolo ha una perdita che ritengo durevole che porta il valore di mercato a 900.000 euro, io devo registrare – lo sottolineo, devo – una perdita di 100.000 euro. Se l’anno successivo il titolo da un milione sul mercato arriva a un milione 150 mila euro, io non è che posso mettere una rivalutazione di 150 mila euro. La rivalutazione la posso mettere – è un recupero vero e proprio – solo nei limiti di 100 mila euro. Quindi, riporto la rivalutazione a 100 mila euro.
Che cosa abbiamo notato? Che diventa difficile stabilire quando una perdita è durevole. È chiaro che devo confrontare il valore al costo con il valore corrente del titolo e valutare la durevolezza. Se ho fatto un investimento e la società perde un anno, non è detto che quella perdita sia durevole. Però, francamente, se la perdita si cristallizza e rimane bene o male quella, e non si scorgono segnali di vita da parte dell’azienda che recupera, se il trend è decrescente, le probabilità che ci sia una perdita durevole vanno ad aumentare. Quindi, questa è una valutazione che va sicuramente presa in considerazione. C’è un obbligo di svalutazione se la perdita è ritenuta durevole.
C’è una discrezionalità, ma la discrezionalità non deve tramutarsi in un arbitrio, nel senso che ci devono essere degli indicatori e bisogna dare le informazioni corrette, soprattutto se ritengo che la perdita acclarata non sia durevole, che – per motivi di opportunità, non di legge né di princìpi contabili – dovrebbero spiegarci le ragioni per cui io non sto procedendo a quella svalutazione. Se dico che non sto procedendo perché penso di recuperare, il primo anno è credibile, il secondo ancora è credibile, il terzo qualche dubbio viene, dal quarto, dal quinto francamente mi sto arrampicando sugli specchi. Però, tutto è possibile, soprattutto per aziende in start-up. Quindi, la valutazione va fatta caso per caso. Aggiungo: più che ragionare in base alla legge e ai princìpi contabili, è una questione di buonsenso e di ragionevolezza che ci deve guidare al riguardo.
Un altro dato su cui richiamo la vostra attenzione è che le attività devono essere esposte in bilancio al netto delle perdite. Se c’è una svalutazione, questa svalutazione incide direttamente sul valore dell’attivo. Lo dico perché abbiamo riscontrato, in un caso, una delle casse sottoposte alla vostra supervisione, che espone nel passivo un fondo oscillazione per rischi su titoli per quasi 50 milioni di euro. Non è corretto, non è conforme alla legge, non è conforme ai princìpi contabili. Se ci sono delle perdite, queste perdite devono essere portate a diretta riduzione dei valori dell’attivo.
I criteri di valutazione delle immobilizzazioni sono importanti. Anticipo implicitamente un tema, che abbiamo lasciato alla fine: la contabilità accrual e l’introduzione degli standard ITAS. Infatti, se l’investimento è durevole, la logica qual è? L’ho comprato, l’ho pagato, quello è il valore. Poi, se vendo il titolo, quando lo venderò a scadenza, se c’è un guadagno lo vado a registrare. È una logica di lungo termine, non sensibile alle variazioni. Questo è importante. Che cosa vuol dire? Che se il titolo scende in un anno non ho l’obbligo di svalutare, se il titolo sale non ho l’obbligo di procedere a una rivalutazione. Questo – lo vedremo alla fine – non è più vero nel caso degli ITAS. Nel caso degli ITAS succederà che anche su un investimento a lungo termine, a meno che non ci siano condizioni molto ma molto stringenti, se il titolo scende io svaluto, se il titolo sale devo rivalutarlo. Quindi, è presumibile un comportamento up and down di questi titoli.
Un altro tema che intendo accennare – rimanendo sempre attento a rispettare i tempi – riguarda i fondi rischi. I fondi rischi individuano delle passività, passività per le quali io non so quando pagherò e quanto pagherò, ma o sono certo di pagare (fondi spese future) oppure è probabile che io vada a pagare. Questo vuol dire che, se la spesa è sicura ma non so il quando e il quanto, quello è un fondo spese che devo andare ad accantonare. Il costo è maturato, l’evento negativo si è verificato, solo il pagamento è differito a un momento futuro. Nel caso del rischio questa certezza non c’è, però c’è una probabilità. Faccio un esempio banale: se ho una citazione da un qualsiasi soggetto e il mio avvocato mi dice che la soccombenza è remota, io posso fare a meno di evidenziare la circostanza; se invece l’evento è possibile, devo dare un’informazione e una nota integrativa; se, infine, l’avvocato mi dice che è probabile la soccombenza nella causa, a quel punto mi devo far dire dall’avvocato qual è il petitum, quanto sono esposto, quali sono le probabilità. In genere, la moltiplicazione delle probabilità per il livello di esposizione mi dice il livello di accantonamento che devo fare in un fondo rischi al riguardo. Ripeto ancora una volta, non me ne vogliate per l’insistenza: nei fondi rischi non ci vanno le perdite su crediti, non ci vanno le perdite su titoli. Giusto per essere chiaro sul concetto.»
Altro tema è la rilevanza.
«Quando un evento non è rilevante, io posso omettere la sua indicazione. È una norma di legge, recepita anche dai princìpi contabili. Come si fa, allora, a capire se qualcosa è rilevante? Per noi e per i princìpi contabili in generale qualcosa è rilevante se una sua omissione come informazione o una sua errata indicazione fa sì, in buona sostanza, che il processo decisionale dei destinatari del bilancio, di chi legge il bilancio sia modificato. Quindi, non mettere quella informazione o metterla in maniera sbagliata cambia l’orientamento di qualcuno che legge il bilancio, ad esempio non mi presta i soldi, disinveste dalla società: gli effetti possono essere vari.
È chiaro che per valutare se qualcosa è rilevante o meno i criteri sono innanzitutto quantitativi, ossia quanto pesa, non tanto in valore assoluto quanto rispetto alle voci di bilancio. Ma c’è anche una considerazione di carattere qualitativo. Una perdita su un investimento che rientra nell’attività tradizionale di una cassa magari qualitativamente può non essere importante. Tuttavia, se io ho fatto un investimento in una start-up innovativa, un investimento rischioso, anche se con un importo ridotto, è chiaro che a quel punto, per quanto quantitativamente quell’evento non lo sia necessariamente, qualitativamente può essere indicativo, perché indica se la politica di investimento del manager su operazioni più a rischio è conveniente o meno. È il livello di esposizione che sto andando ad assumere.»
Si è poi passati al tema della revisione.
«No, non è complicato, nel senso che lo stesso concetto di rilevanza che viene applicato da chi prepara i bilanci specularmente viene adottato da chi questi bilanci li deve verificare, quindi viene adottato nell’ambito dell’attività di revisione. Viene applicato sia nella fase di pianificazione del lavoro sia nelle attività che servono a identificare e poi a valutare la significatività di eventuali errori che dovessero emergere a seguito dell’attività di revisione.
Nell’attività di revisione la rilevanza è articolata, nel senso che si ha in primo luogo un concetto di rilevanza e di significatività rispetto al bilancio nel suo complesso, che attiene a quelle soglie che vengono determinate dal revisore per capire se gli errori possono essere talmente significativi da influenzare le decisioni economiche dei soggetti che fanno affidamento sul bilancio. Questa è una prima soglia di materialità, di significatività rispetto al bilancio nel suo complesso. Poi vi illustrerò alcuni parametri rispetto ai quali normalmente si determina questa materialità.
Esiste un secondo livello di materialità, che è quella più operativa, che serve a classificare le singole attività del bilancio e a pianificare le attività di revisione. Questa significatività operativa, che è più bassa rispetto alla materialità nel suo complesso, si riferisce a quelle soglie e a quegli importi che servono a evidenziare errori che nel loro complesso possono portare a una mancanza di significatività del bilancio nel suo complesso.
Faccio un rapido flash sulle soglie di materialità. Ci sono vari parametri che vengono presi in considerazione. Normalmente, rispetto a società con scopo di lucro – che hanno un’attività ordinaria e che non producono perdite, anzi sono in grado di produrre utili –, la soglia complessiva che si prende è il 5 per cento dell’utile ante-imposte. Ci possono essere, ovviamente, situazioni dove i risultati sono altalenanti per effetto dell’andamento gestionale; allora, lì si può risalire la scala del conto economico, fino ad arrivare ai margini operativi o addirittura ai ricavi (in questi casi le percentuali che vengono prese sono inferiori). In alcuni casi – se la società, per esempio, non ha una redditività adeguata –, ci si può spostare su parametri come il patrimonio netto o il totale dell’attivo.
Questo è in estremissima sintesi il tema della rilevanza. Esistono due princìpi di revisione e due standard di revisione che vengono applicati nella prassi, che servono, da un lato, a definire le soglie di materialità e, dall’altro, a valutare la significatività di eventuali errori.»
Si è poi trattato il tema della continuità aziendale e l’applicazione degli standard ITAS o prospettica degli accrual.
«Con riferimento alla continuità aziendale, il bilancio va fatto ipotizzando che l’azienda sia destinata a durare e, quindi, abbia una capacità di produrre reddito, altrimenti vuol dire che non c’è un’autonomia. Se i ricavi non coprono i costi, vuol dire che c’è un buco, quindi la ricchezza, anziché essere prodotta, viene via via consumata. Questo permette di redigere un bilancio con determinati criteri. Io posso prendere un’immobilizzazione e ammortizzarla in dieci anni, perché do per scontato che l’azienda duri dieci anni. Se l’azienda non dovesse durare dieci anni, è chiaro che i termini dovrebbero essere rivisti e il valore dell’immobilizzazione non sarebbe più il totale diviso dieci, ma quanto vale sul mercato vendere quella immobilizzazione. Quindi, cambia completamente la logica.
Secondo questa impostazione la direzione aziendale, quando fa il bilancio, deve accertarsi che ci siano delle prospettive di continuità aziendale almeno per i successivi dodici mesi dalla data di riferimento del bilancio. Che cosa vuol dire? Che chi sta approvando il bilancio in questo momento, dunque il bilancio 2024, si deve accertare che fino al 31 dicembre 2025 l’azienda o la cassa sia in grado di stare in piedi da sola. Quindi, ci deve essere un piano al riguardo.
È chiaro che, rispetto a questo scenario, ci sono varie possibili gradazioni. La prima, quella più semplice, è che non ci sono incertezze, allora si va abbastanza tranquilli. La seconda ipotesi è che cominciano a prospettarsi delle incertezze, dei rischi, ad esempio l’improvviso aumento dei dazi o la chiusura di alcuni mercati; allora, a quel punto, l’azienda, anche se ritiene che questi eventi non incidano sulla continuità, deve comunque darne un’informazione in nota integrativa, precisando quali sono questi rischi, che impatto possono avere e quali sono le azioni e le policy per ridurli. In altri termini, devo descrivere che cosa sto facendo per evitare la chiusura del mercato: ad esempio, ne sto prendendo un altro, sto valutando altre possibili situazioni o altre scelte di investimento, nel caso delle casse.
La terza ipotesi è che i rischi e le incertezze siano talmente rilevanti da mettere in discussione la continuità, però non si è ancora verificata una causa di scioglimento, accertata per legge. In questo caso, come princìpi contabili che cosa prevediamo? Che devo redigere il bilancio che ho chiuso, il bilancio 2024 – ragioniamo in concreto – sempre sulla base di criteri di continuità. Questo vuol dire che continuo a fare l’ammortamento. Però, non è un dato irrilevante. Difatti, se le prospettive sono incerte, io non posso continuare a fare l’ammortamento a dieci anni. Il tempo di ammortamento tende a ridursi. Nelle valutazioni devo essere più prudente e, quindi, anticipare delle perdite. Se ho un contratto che dura dieci anni e per gli ultimi tre anni penso di non riuscire a coprire quei costi, è chiaro che quei costi li devo cominciare ad anticipare.
La quarta ipotesi è che non ci sia più la continuità e sia intervenuta anche una causa di scioglimento. In questo caso il bilancio 2024 lo continuo a fare in una logica di continuità, però con tutta la prudenza di questo mondo. Poi, nel momento in cui ci sarà la liquidazione di fatto dell’azienda, comincerò a passare ai criteri di liquidazione.
Dove si trova il passaggio intermedio che per voi è rilevante? Io mi potrei trovare in una situazione intermedia in cui non c’è una causa di liquidazione, a dodici mesi le condizioni ci sono, però magari il requisito delle cinque annualità di patrimonializzazione, che io devo assicurare, comincia a traballare, o non c’è più, o è incerto. In questo caso, in base alle informazioni contabili, io dovrei dire: l’azienda ha la sua continuità in base ai princìpi contabili, però questa è una tipica situazione di rischio, quindi devo dire che esiste quel rischio, quali effetti esso può avere e quali sono tutte le azioni che metto in campo per procedere. È chiaro che, a questo punto, nelle valutazioni di bilancio devo essere più rigoroso, quindi quelle perdite durevoli le devo guardare con maggiore attenzione e se ci sono perdite future le devo cominciare ad anticipare.
Ultimo passaggio, e chiudo, sull’applicazione degli standard ITAS o dell’accrual, sperando di essere rimasto nei tempi (mi scuso peraltro per la fretta dell’esposizione). Gli ITAS sono dei princìpi bellissimi, fatti da miei colleghi davvero bravi. Sono però l’incubo della pubblica amministrazione. Questo lo devo dire, perché tutti si sono spaventati, anche perché il livello di preparazione della pubblica amministrazione non è tale – faccio una valutazione da tecnico e da docente universitario – da permettere la loro corretta applicazione. Sono complicati e richiederebbero un livello di competenze che non sono ravvisabili nella pubblica amministrazione.
Che cosa succede nel vostro caso? Il rischio maggiore sta sulle attività immobilizzate. Supponiamo che io faccia degli investimenti a lungo termine. In base agli ITAS – faccio un esempio concreto – io posso mantenere il costo in un caso specifico. Devo fare investimenti in uno strumento semplice, uno strumento per il quale io metto dei soldi, alla scadenza rivoglio indietro il capitale e nel frattempo devo maturare solo gli interessi. È come se stessi comprando un BOT, un CCT o un BTP. Non solo, questo acquisto, che è l’acquisto di una struttura semplice (capitale più interessi), deve essere privo di opzioni, privo di complicazioni di qualsiasi genere, e deve essere inserito in una strategia – il termine tecnico è business model – nella quale non ho l’obiettivo di comprare e vendere. La mia strategia deve avere l’obiettivo di mettere i soldi, riaverli alla scadenza e nel frattempo avere tutti gli interessi. Qualsiasi complicazione rispetto a questo schema – penso che nel 90 per cento dei casi nelle casse sarà questa la fattispecie – mi obbliga ad applicare il fair value, il valore di mercato. Questo vuol dire che a quel punto sono obbligatorie delle oscillazioni. Perché all’inizio ho fatto quella premessa? Innanzitutto questo comporta dei problemi per la cassa e per chi deve controllare e fare le verifiche al riguardo, ma non è nemmeno del tutto coerente con la logica di investimento a lungo termine adottata dalla cassa. Il problema sta lì. Se faccio un investimento a lungo termine, è chiaro che lo faccio perché alla scadenza vorrei avere il capitale indietro o, comunque, le oscillazioni temporanee si presume che non siano significative. Se, invece, sono costretto a fare questa osservazione, è chiaro che la situazione può diventare complicata, viste anche le incertezze su come le casse concretamente valutano le loro attività immobilizzate.»
Si è poi trattato il tema dell’assetto complessivo dei controlli.
«Effettivamente, per quanto riguarda le casse oggi c’è un sistema di controllo ibrido: formalmente il controllo contabile è ancora oggi affidato al collegio sindacale, però è altrettanto vero – come veniva notato all’inizio, con la prima domanda – che esiste un obbligo di revisione ex lege, ai sensi del decreto legislativo del 1994, dove però si dice semplicemente che deve essere una revisione svolta da un soggetto iscritto all’albo e non vengono richiamate altre discipline di legge.
È chiaro che questa composizione, questo assetto dei controlli ibrido può effettivamente portare a delle inefficienze. Abbiamo visto nel tempo che nel mondo delle società di capitali – a partire dal mondo delle quotate, ma successivamente, con la riforma Vietti, si è esteso questo assetto dei controlli anche a tutte le società di capitali – oramai si opera, almeno nelle società di maggiori dimensioni, una distinzione tra ciò che è controllo sugli assetti organizzativi e controllo sull’amministrazione, che viene affidato al collegio sindacale, e controllo contabile a 360 gradi, che invece viene affidato a un revisore terzo e indipendente. Anche questa, secondo me, è una valutazione che potrebbe essere fatta in un’ottica evolutiva dell’intero sistema dei controlli.
Detto ciò, le relazioni dei revisori che svolgono attività di revisione nei confronti delle casse sono del tutto simili a quelle che ritroviamo per le società di capitali, quindi l’attività di revisione è assolutamente guidata dagli standard professionali, dagli ISA Italia, che sono i princìpi di revisione adottati in Italia a seguito delle varie riforme che ci sono state, anche a livello europeo. Però, ripeto, c’è questa relazione un po’ atipica, perché non richiama le disposizioni più recenti in materia di revisione, ma richiama semplicemente il decreto legislativo del 1994.
Per quanto riguarda le soglie di rilevanza e i diversi parametri che avete riscontrato nel corso della vostra attività, la regola base, il principio di fondo dovrebbe essere che le soglie di rilevanza sono effettivamente affidate al giudizio del professionista che svolge la revisione. Come dicevo prima, esistono due specifici princìpi di revisione (l’ISA 350 e l’ISA 420) che dettano proprio i princìpi di fondo per determinare queste soglie di rilevanza. Nell’esercitare questo giudizio professionale, il principio di fondo dovrebbe essere quello di agganciarsi a parametri rilevanti per l’utilizzatore del bilancio. Ovviamente questo dipende dai diversi settori che vengono assoggettati a revisione, dipende dal profilo delle società, dipende dalla loro operatività, dal modello di business. Di volta in volta si possono scegliere parametri più strettamente agganciati al conto economico – come dicevo prima, normalmente il parametro base è l’utile pre-tax – ovvero parametri più direttamente agganciati alla situazione patrimoniale, quindi al totale dell’attivo o al patrimonio netto.
In questo caso, viste le finalità e le caratteristiche dei bilanci delle casse, probabilmente la componente strettamente economica è meno rilevante rispetto a una componente più strettamente patrimoniale. Cosa fare, dunque, per arrivare a una standardizzazione? Mi verrebbe da dire, ricollegandomi a quanto detto proprio all’inizio, che si potrebbe valutare una evoluzione dell’assetto complessivo dei controlli, operando una vera e propria revisione di legge. Stiamo parlando di soggetti che possiamo assimilare al mondo delle cosiddette «public interest entities». Qui stiamo parlando di soggetti rilevanti per la collettività, quindi si potrebbe evolvere verso un sistema di controlli tipico del mondo delle società quotate e delle public interest entities.»
Da ultimo si è trattato dell’utilizzo delle proxy.
«In sé e per sé utilizzare una proxy non è un riferimento sbagliato. Il problema è che cosa sto valutando. Se faccio un investimento in una start-up meridionale e vado a calcolare un indice basato sulle quotazioni di un mercato azionario, magari anche estero, francamente, non ha alcun significato l’utilizzo della proxy. La proxy, quindi, deve essere omogenea e la posso utilizzare quando il titolo ha riferimenti omogenei sul mercato: più l’investimento è specifico – immaginiamo investimenti in start-up, che credo non siano così frequenti nelle casse, perché sono investimenti a rischio – più diventa difficile utilizzare una proxy a un valore di mercato
Quello che diventa importante allora è la frequenza delle proxy: se ne scelgo una che ritengo sia significativa la devo utilizzare con una certa regolarità e, soprattutto, devo evitare che sia cambiata nel tempo, che ci siano variazioni. Normalmente, la cosa più semplice è calcolare – e lo fanno già gli investitori – il net asset value: prendo le attività, le valuto a valori correnti, sottraggo le passività: quello è il valore dell’azienda. Un criterio semplice ed essenziale. L’importante è che sia confrontato nel tempo. Avventurarsi nella scelta di indicatori esotici, affascinanti, però di scarso significato rispetto all’oggetto della valutazione significa correre il rischio che sia un qualcosa di non significativo.
Diventa anche importante avere queste informazioni con una certa regolarità, non cambiando gli intervalli temporali. Se cambio il punto di partenza e il punto di arrivo, chiaramente cambia il risultato. Di volta in volta posso cambiare il punto di riferimento iniziale per mostrare un risultato migliore o peggiore al soggetto. È anche importante che la scelta della proxy e certe valutazioni siano affidate a un soggetto diverso da quello che mi investe le risorse, in modo da avere anche un minimo di indipendenza, almeno a certi intervalli di tempo.
Sugli altri due profili, che attengono in generale alle tematiche di svalutazione, un livello di discrezionalità è di per sé ineliminabile, cioè non è possibile immaginare un’uniformità assoluta. Quello che potrebbe valere per limitare l’eterogeneità è garantire alcune condizioni. Penso innanzitutto alla trasparenza, cioè obbligare le casse a dire esattamente cosa fanno e come lo fanno, il che diventa un elemento che mi permette comparazioni e valutazioni più significative. L’esempio che vi ho fatto, della cassa che dà per i crediti le percentuali anno per anno, è perfetto: se tutte lo facessero allo stesso modo potrei fare un confronto settoriale per valutare. Chi si limita a dare informazioni generali non so se lo sta facendo, come lo sta facendo e quali sono i risultati, quindi non posso confrontarlo con un altro. Dire cosa si fa, quindi fornire informazioni aggiuntive nella nota integrativa, magari meno chiacchiere nella relazione (molto discorsiva, bella, con grafici e quant’altro) e più informazioni di sostanza su cosa sto valutando, come lo sto valutando, un’uniformità interna al settore e, nel tempo, delle aziende nei criteri di valutazione e – aggiungerei – in certi casi la convenzionalità di certe scelte. Se tutti agiscono in un certo modo, anche se non è necessariamente il modo migliore, questo favorisce il vostro controllo, favorisce le attività di verifica.
Se nell’ambito delle società che fanno i controlli e di chi redige il bilancio, per un movimento che viene dal basso o per moral suasion o per norme di legge, tutti sono obbligati a individuare comportamenti lineari, è chiaro che c’è un’uniformità, e questo favorisce comportamenti virtuosi e riduce il rischio di deviazioni sul tema.»
Altre Notizie della sezione

Serve il secondo pilastro privato per l’assistenza ad anziani.
06 Giugno 2025Assoprevidenza e il Consiglio Nazionale degli Attuari hanno rilanciato l’urgenza di un secondo pilastro.

Inpgi, via libera online ai prestiti per i giornalisti autonomi
05 Giugno 2025Per rimborso di spese sostenute per acquisto di beni, o servizi.

Chiusa l’indagine sugli investimenti degli enti di previdenza
05 Giugno 2025Presidente della Bicamerale, Bagnai: “la prossima settimana ok al testo”.